Dalla ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche un passo avanti nella comprensione della sindrome di Rett, grave malattia neurologica ancora senza una cura. Lo studio pubblicato su Scientific Reports del gruppo Nature è frutto di un lavoro coordinato da Gian Michele Ratto dell’Istituto nanoscienze (Cnr-Nano) di Pisa con Silvia Landi ed Elena Putignano della Scuola normale superiore, in collaborazione con Elena Maria Boggio dell’Istituto di neuroscienze (In-Cnr) di Pisa, Maurizio Giustetto dell’università di Torino e Tommaso Pizzorusso dell’università di Firenze.
Grazie a una tecnica di imaging innovativa i ricercatori hanno scoperto che alterazioni delle sinapsi delle cellule cerebrali sono presenti fin da quando i sintomi sono ancora lievi. Lo studio suggerisce quindi che intervenendo con terapie farmacologiche mirate in fasi molto precoci della malattia si potrebbe contrastarne gli effetti. La sindrome di Rett colpisce prevalentemente le bambine, per le quali rappresenta la seconda causa di ritardo mentale grave. Si manifesta tra il nono e il ventesimo mese di vita e comporta un progressivo rallentamento dello sviluppo, la regressione delle abilità psicofisiche e l’irreversibile perdita del linguaggio. È inoltre associata ad autismo ed epilessia.
“Nonostante si conoscano le cause genetiche, dovute per il 90% a una mutazione del gene Mecp2, abbiamo cercato di capire quali fossero le alterazioni cellulari che portano all’insorgenza della malattia, delle quali si sa poco – commenta Gian Michele Ratto del laboratorio Nest – Studiando il modello animale della sindrome di Rett, abbiamo esaminato un particolare della cellula cerebrale, le cosiddette spine dendritiche, piccole strutture distribuite sui neuroni sulle quali hanno sede le sinapsi, che come è noto garantiscono il ‘dialogo tra neuroni’. Quando cambiano forma o posizione di una spina, cambia anche la sinapsi associata. Alla base dei processi di apprendimento e della memoria c’è in qualche modo la capacità di queste strutture di rispondere e adattarsi agli stimoli esterni”.
Nelle cellule adulte, dove le spine dendritiche sono stabili, non sono state rilevate differenze tra le cellule malate e quelle sane.
Con sorpresa degli stessi ricercatori, nel modello animale sembrerebbe tuttavia possibile ripristinare la plasticità. “Una singola iniezione del fattore di crescita insulino-simile, IGF-1, sembra capace di prevenire la scarsa mobilità delle spine malate nella fase precoce – spiega Silvia Landi della Normale, che ha condotto l’esperimento – Ciò suggerisce che qualunque trattamento farmacologico per favorire il normale sviluppo delle sinapsi dovrebbe essere iniziato precocemente, ancor prima di osservare i sintomi clinici della malattia”.
Per realizzare le misure è stato impiegato l’‘imaging a due fotoni’, una tecnica complessa e all’avanguardia che permette di vedere le cellule cerebrali al passare dei giorni. “In Italia sono pochissimi gli strumenti di questo tipo per studi in vivo. L’imaging a due fotoni richiede competenze in discipline molto diverse e la natura interdisciplinare del laboratorio Nest di Pisa è alla base di questo risultato”, conclude Ratto.
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