Covid. Istat, 73mila imprese chiuse, 17mila non riapriranno
- 14 Dicembre 2020
- Pubblicato in EconomiaPrimo Piano
Tra il 23 ottobre e il 16 novembre 2020, è stata condotta la seconda edizione della rilevazione “Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19” con l’obiettivo di aggiornare le informazioni raccolte nella prima edizione1 e consentire nuove valutazioni in merito agli effetti della pandemia sull’attività delle imprese e le loro prospettive.
In questo Report vengono diffuse tempestivamente a cittadini, operatori economici e decisori pubblici, evidenze statistiche di elevata qualità su come le nostre imprese stanno vivendo questa difficile fase della storia del Paese, con particolare riferimento all’impatto economico, finanziario e sulle prospettive future. Inoltre, una specifica attenzione è stata data alle conseguenze che l’emergenza sanitaria ha avuto sull’utilizzo delle tecnologie digitali da parte delle imprese, così come all’importanza per le imprese delle misure adottate fino a giugno 2020.
I quattro quinti delle imprese oggetto di indagine (804 mila, pari al 78,9% del totale) sono microimprese (con 3-9 addetti in organico), 189 mila (pari al 18,6%) appartengono al segmento delle piccole (10-49 addetti) mentre sono circa 22 mila quelle medie (50-249 addetti) e 3 mila le grandi (250 addetti e oltre) che insieme rappresentano il 2,6% del totale. Più della metà delle imprese è attiva al Nord (il 29,3% nel Nord-ovest e il 23,4% nel Nord-est), il 21,5% al Centro e il 25,9% nel Mezzogiorno.
Nel corso della rilevazione, il 68,9% delle imprese ha dichiarato di essere in piena attività, il 23,9% di essere parzialmente aperta – svolgendo la propria attività in condizioni limitate in termini di spazi, orari e accesso della clientela. Il 7,2% ha invece dichiarato di essere chiuso: si tratta di circa 73 mila imprese, che pesano per il 4,0% dell’occupazione. Di queste 55 mila prevedono di riaprire mentre 17 mila (pari all’1,7% delle imprese e allo 0,9% degli occupati) non prevedono una riapertura.
L’85% delle unità produttive “chiuse” sono microimprese e si concentrano nel settore dei servizi non commerciali (58 mila unità, pari al 12,5% del totale), in cui è elevata anche la quota di aziende parzialmente aperte (35,2%). Le attività sportive e di intrattenimento presentano la più alta incidenza di chiusura, seguite dai servizi alberghieri e ricettivi e dalle case da gioco. Una quota significativa di imprese attualmente non operative si riscontra anche nel settore della ristorazione (circa 30 mila imprese di cui 5 mila non prevedono di riprendere) e in quello del commercio al dettaglio (7 mila imprese). Il 28,3% degli esercizi al dettaglio chiusi non prevede di riaprire rispetto all’11,3% delle strutture ricettive, al 14,6% delle attività sportive e di intrattenimento e al 17,3% delle imprese di servizi di ristorazione non operative.
Tra le imprese attualmente non operative, quelle presenti nel Mezzogiorno sono a maggior rischio di chiusura definitiva: il 31,9% delle imprese chiuse (pari a 6 mila unità) prevede di non riaprire, rispetto al 27,6% del Centro, al 23% del Nord-ovest e al 13,8% del Nord-est (24% in Italia).
Il 68,4% delle imprese (che rappresentano il 66,2% dell’occupazione) dichiara una riduzione del fatturato nei mesi giugno-ottobre 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019. Nel 45,6% dei casi il fatturato si è ridotto tra il 10% e il 50%, nel 13,6% si è più che dimezzato e nel 9,2% è diminuito meno del 10%. Rispetto a quanto rilevato per il bimestre marzo-aprile 2020, si conferma dunque un’elevata incidenza di imprese con il valore delle vendite in flessione (erano il 70%) ma si riduce l’intensità: il 41,4% delle imprese aveva infatti riportato una riduzione del fatturato superiore al 50% rispetto agli stessi mesi del 2019, il 27,1% tra il 10 e il 50% e il 3% meno del 10%.
Scende anche l’incidenza di casi di mancata realizzazione di fatturato (1,9% rispetto al 14,6% di marzo- aprile) mentre si amplia la quota di imprese con valori del fatturato stabili (19,9% rispetto a 8,9% di marzo- aprile) o in aumento (il 9,8% rispetto al 5%). In particolare il 3,8% dichiara un aumento inferiore al 10% e il 6,0% superiore a tale soglia.
Sul territorio, la quota di imprese con vendite in crescita risulta superiore alla media nazionale nella provincia autonoma di Trento (17,5%), in Veneto (12,5%) e Abruzzo (12,3%). Sul versante opposto, la quota di imprese che fanno registrare una flessione del fatturato superiore al 50% è più alta nel Lazio (18,3%), in Sicilia (17,4%), Campania (17,3%) e Calabria (17,1%).
A livello settoriale, recuperano rispetto ai risultati particolarmente negativi di marzo-aprile le imprese che operano nelle costruzioni, con il 26,8% che dichiara una stabilità del fatturato e l’11,5% una crescita, contro l’8,3% e il 6,1% di marzo-aprile. Nel complesso, recupera anche il settore della produzione di beni intermedi ma con specificità a livello di singoli comparti. Più nel dettaglio, la metallurgia presenta una quota relativamente elevata di imprese con flessione del fatturato mentre nelle industrie farmaceutiche l’incidenza di dinamiche positive, pur consistente (22% dei casi), è inferiore a quella di marzo-aprile (28%); l’opposto avviene per l’industria della chimica (21,8% a giugno-ottobre e 18,6% a marzo-aprile).
La quota di operatori che riportano una perdita di fatturato compresa tra il 10 e il 50% è superiore alla media complessiva (45,6%) nel comparto dei beni alimentari (50,8%) e in quello dei beni di investimento (49,2%). All’interno della manifattura sono particolarmente colpiti la fabbricazione di prodotti in pelle, l’industria del legno, della carta stampata. La fabbricazione di altri mezzi di trasporto registra invece una quota significativa di imprese con un fatturato in crescita (26,2%).
Il commercio, in particolare quello al dettaglio, ha risultati in linea con quelli aggregati nonostante le limitazioni amministrative: il 42,3% registra un calo del 10-50%, il 10,6% di oltre il 50% e l’11,2% di meno del 10%. Molto più negativo l’andamento dei servizi ricettivi: il 43,5% delle imprese dichiara assenza di fatturato o una diminuzione superiore al 50%, il 43% un calo del 10-50%. Analogamente, il comparto della ristorazione registra il prevalere di flessioni, anche se con un’intensità inferiore rispetto a quello ricettivo: il 26,7% non registra fatturato o subisce riduzioni di oltre il 50%, il 56,3% tra il 10-50%.
I servizi alla persona, alle imprese o professionali si confermano i comparti più colpiti non riuscendo a beneficiare se non in misura limitata del complessivo miglioramento rispetto alla situazione di marzo-aprile.
Tra i comparti in difficoltà spicca quello delle agenzie di viaggio e tour operator: l’88% dichiara una assenza di fatturato o una perdita superiore al 50%. Diminuzioni superiori alla media si rilevano anche nel campo delle attività creative e artistiche, di produzione cinematografica e musicale, sportive e di intrattenimento, nell’assistenza sociale non residenziale, case da gioco, attività di noleggio e leasing, istruzione e nel settore della pubblicità e ricerche di mercato.
Le micro imprese (3-9 addetti), più delle altre tipologie dimensionali, attribuiscono il calo del fatturato alle restrizioni dovute all’attuazione dei protocolli sanitari, con un’incidenza del 43,2%. Nelle piccole imprese tale quota scende al 35,4%, con un’importanza analoga a quella del calo della domanda nazionale di beni o servizi (35,3%).
Tra le medie e grandi imprese la riduzione del fatturato è invece attribuita direttamente al calo della domanda nazionale (36,1% delle risposte tra le imprese di 20-249 addetti e 38,7% tra quelle di 250 addetti e più) o di quella estera (24,8% e 24,3%). Sono decisamente meno frequenti le segnalazioni relative a effetti negativi connesse all’acquisizione di materie prime, sia in termini di fornitura (1,7%) sia per l’aumento dei prezzi (1,6%), sia per le esigenze di isolamento/quarantena del personale (3,2%).