Nel 2005 gli italiani in povertà assoluta, ossia quelli non in grado di permettersi un paniere minimo di beni, erano 2 milioni, il 3,3% per cento della popolazione. Dieci anni dopo, nel 2015, sono più che raddoppiati, sfiorano ora i 4,6 milioni, e sono il 7,6%.
E’ quanto rileva il nuovo MiniDossier di Openpolis “Poveri noi”, in collaborazione con ActionAid. Secondo il report, l’incremento più drammatico è stato tra il 2011 e 2013: in un solo triennio i poveri assoluti sono passati dal 4,4 al 7,3% della popolazione.
Si trova in condizione di povertà assoluta il 19,8% delle famiglie dove la persona di riferimento è in cerca di occupazione. Ma non è solo la mancanza di lavoro a causare l’impoverimento. Anche la struttura del mercato del lavoro che si è affermata dopo la crisi può aver contribuito ad aumentare i poveri. Nelle famiglie operaie il tasso di povertà assoluta è triplicato tra 2005 e 2015, passando dal 3,9 all’11,7%. Inoltre nel corso dei 10 anni è aumentato il numero di persone che lavorano con contratti di poche ore: +28,07% chi lavora tra 11 e 25 ore a settimana, +9,06% chi lavora anche meno di 10 ore a settimana.
Nel 2005 i più poveri erano gli anziani sopra i 65 anni (4,5% circa), e comunque fino al 2011 non si registravano grosse differenze di povertà tra le varie fasce d’età. La crisi, distruggendo posti di lavoro, ha capovolto questa situazione: in un decennio il tasso di povertà assoluta è diminuito tra gli anziani (scesa al 4,1%), mentre è cresciuto nelle fasce più giovani: di oltre 3 volte tra i giovani adulti (18-34 anni) e di quasi 3 volte tra i minorenni. Tra le cause, anche l’altissima percentuale di persone che non studiano, non lavorano e non sono in formazione (i cosiddetti neet). Nella fascia d’età tra i 15 e i 24 anni l’Italia è il paese dell’Unione europea con la più alta percentuale di neet, mentre in quella tra 15 e 29 anni è seconda dopo la Bulgaria.
La percentuale di donne in povertà assoluta è raddoppiata tra 2005 e 2015, in linea con l’andamento nell’intera popolazione. In questi anni è aumentato il divario salariale di genere (dal 5,1% del 2007 al 6,5% 2014), anche se resta più contenuto rispetto ad altri paesi. In Italia la povertà femminile spesso deriva dal mancato accesso delle donne al mercato del lavoro, soprattutto dopo la maternità. Nella classifica delle lavoratrici con un figlio siamo penultimi in Europa, seguiti solo dalla Grecia. Nel 2015 la quota di donne con un figlio che lavorano (56,7%) è inferiore alle lavoratrici con almeno tre figli in Danimarca (81,5%).
Il rapporto indica, tra i principali problemi, un welfare italiano ancora poco adatto a rispondere alle nuove forme di difficoltà economica. L’Italia spende in protezione sociale, al netto della spesa sanitaria, il 21,4% del Pil, cioè sopra la media Ue pari al 19,5%. Ma in termini di riduzione della povertà, il nostro paese potrebbe fare di più: prima dei trasferimenti sociali si trova a rischio povertà il 45,8% della popolazione, mentre dopo si scende al 19,4%. Il welfare francese riduce il rischio povertà dal 44,4% al 13,3%, quello svedese dal 44% al 15,1%.
In Italia la tutela dalla disoccupazione e dal rischio esclusione impiega il 6,5% della spesa in protezione sociale, contro il 15,8% della Spagna, il 12,1% della Francia, l’11,7% della Germania e il 10,9% del Regno Unito. La quota di spesa sociale destinata alle famiglie, ai bambini e al diritto alla casa supera la doppia cifra negli altri stati europei, mentre da noi si ferma al 6,5%.
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